Traversata dall'Alpe di Siusi, per lo Sciliar fino alla Val di Tires.

Una due giorni in Dolomiti con pernotto in rifugio.


Le condizioni meteo in questa lunga “trasferta” alpina si continuavano a mantenere ottimali, è bastata una telefonata, anche se di “serie B” un paio di posti al rifugio Tires li abbiamo trovati, quasi gli ultimi a disposizione, è stato facilissimo anche organizzare lo spostamento con i mezzi pubblici fino alla base di partenza vista l’efficienza del servizio altoatesino, l’escursione di due giorni progettata tanto tempo fa, quasi dimenticata e ritornata in auge in questi giorni, si stava concretizzando, anzi era cosa fatta. Alle 8 e dieci, alla fermata di fronte al nostro residence, prendiamo l’autobus di linea, poco affollato, qualche indigeno e pochi escursionisti che come noi occupavano doppi sedili con gli zaini ingombranti. Una processione di fermate ogni pochi chilometri, a volte poche centinaia di metri, il bus scende la valle di Tires toccando tutte le frazioni, il più delle volte vista l’ora alle fermate non c’era nessuno ad attenderci. Santa Caterina, Aica di Fiè, Presule, Umes, Fiè, Siusi... piccoli e grandi paesi, a volte piccoli agglomerati di case, sempre un campanile o una piccola cappella ad attenderci, a volte né l’uno e né l’altro, le fermate tra un paese e l’altro erano solo un punto di raccolta nel vasto territorio ai piedi delle montagne. Dal finestrino dell’autobus scorrevano simili eppure diversi tanti quadri di paesaggi alpini, girando intorno al massiccio dello Sciliar e via via che si scendeva di quota lungo la valle, le praterie e i boschi lasciavano spazio alle geometrie delle vigne, piccoli e pittoreschi agglomerati punteggiavano come in un presepio i ripidi fianchi della valle, ogni tanto una casa fortificata, un castello, tutto con un ordine estremo ogni cosa in armonia con quella a fianco, insomma ci scorreva davanti il paradiso. Nei pressi di Presule lasciamo la valle di Tires, Il bus continua ad attraversare delle stradine a doppio senso dove a malapena riesce ad entrare, continua ad entrare ed uscire da piccoli paesi, siamo sulle piccole e ondulate montagne sopra la Val d’Isarco, paesaggi alpestri struggenti, nuovi panorami e sempre più ampi orizzonti, quando la guglia di Punta Santner si stacca dal profilo della montagna e si impone per la sua verticalità siamo arrivati agli impianti delle funivia. Siusi è poco oltre, oggi non avremo tempo per visitarla come pure Castelrotto poco più avanti. La funivia ci porta in quota, all’Alpe di Siusi, un plateau molto esteso dove spiccano un paio di impianti di risalita ed una corona di montagne che lo contengono. A dirla così significa ridurre a niente questo sito così bello, oggi ad una quota media di 2000mt. luogo di pascolo e che un tempo era dominio di fitti boschi, è uno dei luoghi delle Alpi più antropizzato eppure è tutto perfettamente in armonia; capanne in legno punteggiano il territorio, a metà tra magazzini per gli attrezzi agricoli e spartani ricoveri, alcuni vere villette, raccontano quanto lavoro ci sia dietro quell’ordine, sentieri ordinati dividono le praterie, la strada che le taglia fino all’albergo Panorama quasi non si vede, in alcuni tratti sprofonda sotto il manto erboso per lasciare la continuità al territorio, a volte il sentiero tra le praterie è sopraelevato per superare delle zone acquitrinose comunque contenute e regimentate da piccoli fossi costruiti con antica maestria. L’impianto di risalita per lo sci invernale fino all’hotel Panorama si perde nella vastità del territorio, l’occhio è attratto da ben altro, il Sasso Lungo ed il Sasso Piatto da qui sembrano quasi monti gemelli e non si capisce il perché dei toponimi, si perdono nella caligine della foschia estiva; non si perdono e si fanno notare invece le dorsali dei Denti di Terrarossa e dello Sciliar fino al Monte Petz e Punta Santner, che come un muro continuo contengono l’Alpe di Siusi verso Sud, Sud-Ovest. Gli orizzonti più lontani verso Nord sono costellati da montagne imbiancate, probabile che siano dalle parti di Merano, sono forse sul confini con l’Austria, l’ignoranza impera e nemmeno l’immaginazione aiuta a dargli un nome. Usciti dalla cabina della seggiovia si parano davanti una cinquantina di segnali del CAI con altrettante indicazioni sentieristiche, indubbiamente sono messi lì per scenografia e per raccontare con uno spot le possibilità del territorio; facile pensare di essere nel paradiso dei trekkers. Prendiamo a salire lenti, inizialmente come in una processione con i tanti che sono saliti per conoscere questo famoso angolo delle Alpi; i sentieri sono ben delineati, tratti delimitati da cunette in legno o da pietre ben disposte, passerelle per superare piccoli tratti acquitrinosi, qualche palizzata a delimitare i tratti dove le passerelle si sollevano dal terreno, c’è poco di avventuroso, è davvero la montagna per tutti. Si sale costantemente con leggera pendenza, prima in fila con le famiglie che trascinano passeggini o bambini recalcitranti, poi via via che i Denti di Terrarossa si avvicinano rimaniamo in pochi, l’obiettivo è là davanti quella forcella che si abbassa a sinistra di quella ruvida fila delle guglie che abbiamo di fronte. Attraversiamo l’altopiano, il sentiero manco a dirlo è scontato, c’è poco da concedere all’immaginazione, superiamo degli appezzamenti recintati dal filo elettrico, ovviamente in questo periodo dell’anno è tutto un pascolo d’altura, sul sentiero delle porticine a sbalzo impediscono che le mucche tentino di attraversarle, gli escursionisti le scavalcano agevolmente. Si avvicinano i Denti di Terrarossa, mai più giusto toponimo è stato assegnato tanto quella dorsale sembra una mascella famelica, una piramide slanciata invece la guglia di punta Santer a chiudere l’altopiano dello Sciliar verso Ovest. Senza affanni ed in un paio d’ore arriviamo alla base del grosso canale ghiaioso, i traversi salgono con lente svolte, prima lunghi e lenti poi via via più corti e più ripidi, l’orizzonte si estende lentamente su gran parte dell’Alpe di Siusi. Con affanno saliamo, ogni tanto una sosta qualche volta voluta, altre dovuta, è molto affollato il sentiero anche da “improbabili escursionisti” ammirevoli di tanta caparbietà ma che rallentano ad ogni passo; sull’ampia sella ci attendono un bel numero di persone che rifiatano dopo tanta sgobbata ed un piccolo gruppo di capre dalla lunga lana che si arrampicano poco sopra. I passi sono sempre degli sparti acque, non sai mai cosa ti aspetta dall’altra parte, ci arrivi con frenesia per buttare il primo sguardo; e di là abbiamo trovato un paesaggio nuovo per noi, il profilo del Sasso Piatto, da qui è molto chiaro il suo toponimo, la valle di Funtanacia che fila via tra la Croda dell’Alpe ed il Sasso Piatto e la croda dell’Alpe, un altro quadro alpino di bellezza unica. Magnifico il paesaggio, ancora una perla da ricordare e da portarsi a casa, mi porto su uno sperone un po’ esposto, tento di fermare la smania, va solo vissuto quel momento, va ricordato nei dettagli, ma è più forte di me e visto che ci sono gli scarico qualche scatto fotografico che potrà aiutare nell’impresa. Il sentiero continua dalla parte opposta, qualche stretto e ripido tornante prima di prendere un facile panoramico traverso che nel giro di 15 minuti ci porta nella piana del rifugio di Tires. Al rifugio ci passeremo la notte ma siamo arrivati troppo presto, erano appena le tre del pomeriggio, abbiamo calcolato un po’ male i tempi ma non ci siamo arresi, Marina ha subito proposto di salire sulla dorsale che avevamo davanti, un grosso sperone che allunga le Crode dell’Alpe o se vogliamo che anticipa le Cime del Principe. Intuitiva la salita, il sentiero inizia sotto una parete molto appoggiata che si fa salire di traverso; non difficile l’approccio, quasi facile anzi, si sale per dieci minuti senza bisogno di arrampicare, il pendio è comunque ripido e roccioso ma è facile mettere i piedi, anche gli appigli sono tanti e in ogni caso per garantire la massima sicurezza alcuni tratti sono stati attrezzati con un cavo metallico. Quando arriviamo sopra la dorsale rispetto al rifugio saremo saliti un centinaio di metri. Tutta la cordigliera di Terrarossa è di fronte a noi, ruvida e di un colore rosso-marrone atipico per le Dolomiti, spicca verso Sud la Croda di Terrarossa, ripida e slanciata, è imponente quella centrale tozza, scanalata e massiccia, eleganti sono invece le piccole guglie verso il passo; oltre la sella dove sorge il rifugio lo sguardo viene sempre accompagnato verso quel piano inclinato che sale fin sulla vetta del Sasso Piatto, sostiamo in una piccola conca erbosa, al riparo dal vento e con questo quadro alpino davanti, avremmo voluto che il tempo si fermasse. Consultiamo la carta per capire fin dove ci saremmo potuti spingere continuando verso le Crode dell’Alpe, solo un obiettivo potevamo concederci dovendo poi tornare al rifugio per passare le notte, il passo Molignon, un altro passo, un altro di quei punti di confine che stuzzica la curiosità. La carta parlava chiaro, le Cime del Principe, l’Antermoia, anche in uno sguardo fino alla valle di Ciamin si poteva sperare; non c’era molto da salire, ed un paio di chilometri forse da percorrere, c’era tempo per tutto e ci siamo incamminati. Il sentiero attraversa e sale piccole e anonime vette, si affaccia ora sui Denti di Terrarossa ora sulle dorsali opposte, a Nord dominano i contrasti del verde delle praterie e il marrone della roccia dei Denti di Terrarossa verso Est e verso Sud il colore che domina è il grigio, quasi bianco abbagliante della roccia di questo pezzo di Dolomiti. Arriviamo al cospetto della ripida parete del Molignon di fuori, dalla selletta cinquanta metri sotto di noi una palina sancisce l’inizio di una difficile ferrata che sale verticale e che in bilico sulle creste di questo gruppo attraversa fino all’Antermoia, la ferrata Laurenzisteig; attraversiamo la selletta, sfiliamo sotto la parete, fino ad una più marcata sella, è il sottile e stretto passo Molignon. Non ci si abitua facilmente alle Dolomiti, bastano pochi chilometri, a volte centinaia di metri, e si aprono mondi nuovi, inaspettati; dalla stretta e sottile sella di passo Molignon, il sentiero precipita dentro un buco profondo almeno trecento metri, intorno solo montagne alte che gli fanno prendere le sembianze di un pozzo, di fronte a salire un ghiaione ripidissimo, passo Principe che abbiamo toccato due anni fa, a dominarlo sulla sua verticale il Catinaccio d’Antermoia, a sinistra solo le pareti del gruppo del Molignon mentre a destra quelle delle Cime del Principe a chiudere l’abisso, non lo vediamo ma le carte parlano chiaro, in fondo a quel buco il sentiero si infila sulla destra fino al rifugio Bergamo, e da lì per la val Ciamin si ritorna in val di Tires; che meraviglia sarebbe scendere fin laggiù, che sensazione inebriante di piccolezza si dovrebbe provare in quel pozzo e che splendido anello avremmo potuto fare anche in una sola giornata. Non era per oggi, ancora mi porto dietro la frenesia che mi ha trasmesso quel buco di ghiaia, quando ho voltato le spalle per ritornare al rifugio era come se stessi per lasciare una promessa di emozioni che sapevo difficile da ritrovare. A ritroso ripercorriamo lo stesso sentiero, ci attende il rifugio dove passeremo la notte, senza indugi in meno di un’ora andiamo ad appropriarci delle nostre cuccette, più tardi ci avrebbe aspettato un tramonto rarefatto e sfumato sul Sasso Piatto da fa fermare il tempo. L’indomani quando ci affacciamo per scrutare l’orizzonte il cielo è grigio, abbiamo fiducia che quella coltre sparisca e si dissolva col salire del sole. E’ bastato il tempo della colazione per far dissolvere le nubi, rimanevano solo sulle cime più alte, solo le creste erano ancora nascoste quando abbiamo preso il lungo traverso che dalle spalle del rifugio tagliava tutta la dorsale dei Denti di Terrarossa; il traverso finisce per inerpicarsi sull’altopiano dello Sciliar subito dopo la Croda che porta lo stesso nome della catena. Il controluce dominante e le nubi rarefatte sulle cime di Ciamin e sulle Cime del Principe regalavano attimi di struggente bellezza, sapevo che era inutile fotografarle, non le avrei mai più riviste così quelle montagne. Quando il sentiero si appiana, a 50 minuti dal rifugio, si entra nell’altopiano dello Sciliar, a destra si intravede la sottile traccia che scende dai Denti di Terrarossa dove termina una elegante ferrata; un grande omino di pietra e una palina segnaletica ci danno la direzione, ma non ce ne era bisogno, verso Ovest, tra le nuvole si intravedeva già monte Petz. Lunghi tratti di falsopiano e poche innocue salite, qualche acquitrino che riempie piccoli laghetti, praterie basse e orizzonti vasti chiusi oggi da nuvole sfilacciate ma poco compatte, tre chilometri di sentiero comodo che inizia a salire solo quando si è vicino al rifugio Bolzano, questo è l’altopiano dello Sciliar, si viaggia sul filo dei 2400 mt. Il rifugio Bolzano sembra un castello asburgico, massiccio e austero, imponente la sua mole, fantastica la posizione davanti alla dorsale del Catinaccio, letteralmente da favola i suoi interni in perfetto stile montanaro e in linea col suo aspetto esterno. Per la posizione, per come domina le montagne del Catinaccio, per l’aria che si respira al suo interno, per come parla e sa di montagna dovevamo passare la notte qui invece che all’ultra moderno rifugio Tires, io l’ho pensato, Marina lo ha detto. La salita al monte Petz è cosa semplice, sono meno di cento metri di dislivello e meno di un chilometro da percorrere; quando arriviamo al cospetto della croce di vetta le nuvole si diradano un po’ e ci consentono di vedere l’altopiano di Siusi, lo Sciliar continua con una lingua di terra sospesa fino al monte Castello, poco oltre la sua cima il burrone stacca Punta Santner dal massiccio ma non ci facciamo tentare, la nostra salita la chiudiamo sotto la croce del monte Petz, ci aspettano diversi chilometri, almeno otto e soprattutto 1400mt di dislivello tutto in discesa fino a san Cipriano in val di Tires. Quando sul sentiero di ritorno scivoliamo di nuovo sopra al rifugio Bolzano ci viene regalata una quinta straordinaria, alle sue spalle il Catinaccio e tutta la sua dorsale giocano a nascondersi con le nuvole, una cartolina, un quadro che non si può raccontare. Che meraviglia! Aggiriamo il rifugio e prendiamo il sentiero n° 2 per San Cipriano, ci affidiamo alla segnaletica piuttosto che alla carta e facciamo bene, due sentieri scendono in val di Tires, il primo attraversando in falsopiano la prateria avrebbe raggiunto la dorsale che avevamo davanti, la dolcezza del paesaggio non lasciava presagire il profondo salto che c’era subito dopo, questa traccia si inabissava toccando prima la malga Seggioia e poi il fondo valle che poi inevitabilmente avremmo dovuto risalire fino al passo di sella Cavaccio, sarebbe stata una brutta storia; il sentiero n°2 scende sotto il rifugio con una pendenza leggera e graduale, frequenti sono i segnavia lungo il percorso quasi a voler ribadire che si trattava della via canonica per scendere. Compie un ampio giro per abbassarsi gradualmente, in buona sostanza ritorna a ritroso verso i Denti di Terrarossa costeggiando abbassandosi l’altopiano dello Sciliar, infilandosi dentro un fosso, lentamente raggiunge la testata della profonda valle Tomes proprio sotto lo stazzo Aicher Stall, posto a ridosso di un salto roccioso da dove sgorga una cospicua sorgente che va a formare il fosso che per un po’ costeggeremo. Mucche al pascolo, il fragore leggero dell’acqua che scorre di fianco al sentiero fin tanto che il fosso inizia la sua discesa verso il basso insieme alla valle che si restringe e precipita, il sentiero rimane in quota e taglia il versante sinistro ed entra in un rado bosco; la tipica valle alpina come siamo abituati a vederle sulle cartoline. Quando prendiamo il bosco la traccia è ormai molto alta sul fondo valle, alcuni tratti sono esposti e sporgenti sui fianchi della montagna che iniziano ad essere molto ripidi. Sono quasi un paio d’ore che camminiamo da quando abbiamo lasciato il rifugio, non c’è ombra del passo, intuiamo tra gli alberi, su una balconata erbosa nel versante opposto la malga Seggioia, capiamo che la sottile traccia che si staccava dal sentiero mezzo chilometro prima avrebbe condotto esattamente lì. Almeno guardando la carta e rispetto alla malga la sella che dovevamo raggiungere si trovava esattamente sulla perpendicolare, il sentiero dove eravamo costeggiando fossi e costoni serpeggiava sul lato della montagna e allungava a dismisura la distanza, ci aspettavamo da un momento all’altro una palina con l’indicazione del passo ma le speranze si infrangevano sulla svolta successiva, cominciavamo evidentemente ad essere stanchi. Alla fine tutto ha una fine ed arriviamo alla sella, al passo Cavaccio di poco sopra i 2000 mt., sono passate poco più di due ore da quando abbiamo lasciato il rifugio Bolzano. La solita panca per tirare il fiato questa volta serve anche per prendere coraggio, davanti c’era quello che mi aspettavo e che avevo più o meno taciuto a Marina, una valle che ha le sembianze di una spaccatura, di un taglio nelle montagne, di una forra in alcuni tratti, la valle Orsara; le dolcezze della valle di Tires sono laggiù in fondo, vicine in linea d’aria ma terribilmente profonde rispetto a noi, inutile illudersi, insieme alla certezza che avremmo attraversato un altro gioiello dolomitico avevamo anche quella che l’imbuto che avevamo davanti sprofondava verticale per 900mt. Il sentiero si mostra subito per quello che è, nel tratto in alto una continua esposizioni verso pendenze e vuoti marcati, una dorsale ripida col sentiero che scorre al culmine, traversi ampi ma con grandi esposizioni, tratti attrezzati con cavi, tratti attrezzati con passerelle e cavi, passaggi rubati alla montagna che scivola via. Quando la parte attrezzata termina, circa duecentocinquanta metri più in basso della sella, il sentiero scivola ripido e sempre con qualche esposizione dentro un rado bosco, ora abbiamo le pareti della forra sopra di noi, prima scendevamo all’interno di una sorta di faglia ora la sensazione era quella di starci dentro, una vera spaccatura della montagna che ti precipita addosso. Sono pochi i tratti lineari, continui tornanti mettono a dura prova gambe e ginocchia. Sembra interminabile la discesa, l’orizzonte quasi non esiste, solo uno spicchio di valle lontana ed un pezzetto di cielo azzurro; verso la metà della discesa il silenzio viene interrotto da un piccolo rivolo che ben presto si inabissa di nuovo, le pareti si stringono e si avvicinano a meno di venti metri e poi si riallargano, è un budello interminabile. Fino ad oltre la metà della valle Orsara il sentiero scende sul lato sinistro della forra, quando pensiamo di esserci abbassati definitivamente o quasi e le esposizioni si siano annullate la valle compie un grosso salto, impossibile da superare, la traccia attraversa l’arido fosso e fila sul lato opposto; la forra si allarga ed inizia a prendere i connotati di una valle più ampia, ancora un traverso molto esposto e inaspettato, per fortuna breve, degli abeti contorti sfidano la gravità, non ci aspettavamo un tratto così, la stanchezza ci sta fregando, per fortuna la fune disposta nella roccia verso monte ci da sicurezza. Poi il sentiero gira attorno al costone, entra nel bosco e finalmente si fa ampio e placido; lunghi tratti diritti dentro il bosco di larici scendono con poca pendenza, i tornanti sono fitti e secchi, per un tratto si cammina tanto e si scende poco, segno evidente della pendenza del versante. In mezzo alla rada chioma dei larici intravediamo i primi tetti di Lavina Bianca, il paese sopra san Cipriano, è solo una illusione, siamo ancora lontani dall’arrivare, sotto abbiamo la valle di Ciamin che si infila lunga fin sotto le crode e la strada di fondo valle che l’attraversa è una sottile linea polverosa ancora molto molto bassa rispetto a noi. Ogni tanto il sentiero riprende a scendere ripido e ad aggrovigliarsi su se stesso, sotto un costone il rumore dello scorrere dell’acqua fa presagire un corso d’acqua ma c’è molto di più; dentro una piccola grotta una sorgente, una piccola cascata forma un rigagnolo, non c’è sembrato vero, la quota più bassa e la forra dentro la quale spirava poca aria ci stavano facendo soffrire, ci siamo letteralmente gettati sotto quella fontana naturale, non potevamo chiedere di più. Lì accanto, non poteva mancare la solita panca, un pezzo unico di un grosso tronco di larice, la grotta e la fonte sono riportati anche sulle carte come Tschtterlock, evidentemente da Lavina Bianca è una bella attrattiva per star fuori un paio d’ore. Risollevati dalla frescura riprendiamo a scendere, dieci minuti e siamo in fondo, si fa per dire perche’ Lavina Bianca è un agglomerato di poche case e lussuosi alberghi e centri benessere e si trova sopra san Cipriano poco più di cento metri. Il primo chilometro o quasi è su nastro d’asfalto, non ci sono sentieri per scendere tanto è incassato il fosso, fuori dal borgo sulla sinistra una palina fa deviare dentro il suo alveo, un paio di svolte ripide e poi l’acqua del torrente che arriva dalla val Ciamin, qui molto copioso e rumoroso; siamo arrivati, ora davvero, mancano duecento metri in piano per sbucare esattamente davanti al nostro garni. E vi assicuro dopo una sfacchinata di 14 chilometri, con un secco dislivello negativo di oltre 1400 mt. chiudere l’escursione di fronte all’albergo e planare direttamente in camera non ha prezzo.